Sutera
Memorie arabe
Comune di sutera
(Provincia di Caltanissetta)
Altitudine
m. 590 s.l.m.
Abitanti
1438 (200 nel borgo)
Patrono
Madonna del Carmelo, 16 luglio
San Paolino, martedì e domenica dopo Pasqua
Sant’Onofrio, la prima domenica d’agosto
info turismo
Ufficio Turistico, tel. 0934 954929
ufficioturistico@comune.sutera.cl.it
www.comune.sutera.cl.it
Il nome
Il toponimo ha resistito alla dominazione araba conservando l’origine greca medievale: deriva probabilmente da Sotéra, accusativo di Sotér, «salvatore», in riferimento al baluardo difensivo rappresentato dal monte e dalle fortificazioni di epoca bizantina; oppure da Sotéira, «colei che salva», attributo della dea Artemide al cui culto si sarebbero dedicate popolazioni dell’antica Grecia in una zona collinare vicino all’attuale paese.
La storia
VII sec. a. C., sepolture pre-elleniche appartenenti a un villaggio sicano – della popolazione indigena della Sicilia – sono state rinvenute a pochi km dal centro urbano.
VI sec. a.C., si ipotizza che l’area del monte di San Marco fosse consacrata da coloni greci provenienti da Gela, al culto di Artemis Sotéira, dalla quale secondo alcuni deriverebbe il nome Sutera.
IV-VI sec. d.C., sempre in località San Marco, le tracce di affreschi (figureddi) visibili in un ipogeo potrebbero essere attribuiti a monaci basiliani di rito greco-ortodosso.
860, gli Arabi (forse Berberi del Nord Africa) fondano il quartiere del Rabato (da Ràbad, «borgo fuori le mura»), la cui struttura urbanistica ancora caratterizza il borgo.
XI sec., l’abitato si espande sotto i Normanni, subentrati agli Arabi, e sotto gli Svevi (XIII sec.), con la fondazione e lo sviluppo del quartiere Giardinello.
1325, con gli Aragonesi Sutera diventa feudo di Ruggero di Scandolfo, per poi passare ai baroni Chiaromonte e quindi ai Moncada.
1398, il borgo è restituito al pubblico demanio della Corona di Sicilia, feudo della chiesa e poi dell’Impero.
1535, l’imperatore Carlo V vende al barone di Capaci, Girolamo Bologna, Sutera, che ritorna alla Corona nel 1560 grazie al riscatto reso possibile dagli stessi cittadini, autotassandosi.
Tra i profumi del timo e del rosmarino, e le bizzarrie della geologia, a Sutera parla la storia. Nelle grotte e negli anfratti formati dai fenomeni carsici si è mossa la civiltà sicana. Negli ipogei restano tracce dei monaci basiliani. Gli Arabi hanno fondato il loro villaggio tra gli spuntoni di roccia, ammonticchiando i dammusi sotto la rupe gessosa del monte, dall’alto del quale nei giorni limpidi lo sguardo si posa sull’Etna e sul mare di Agrigento. Tra i vicoli in pietra lavica e calcarea del quartiere Rabato, tra i suoi cortili arabi, le crepe delle vecchie case di gesso e gli orti incolti dove fioriscono i pistacchi, il passato rivive come in un’antica Palestina. A Sutera, nelle luci tremanti della sera, la casbah si confonde con il presepe, che nei giorni di Natale s’incarna nei figuranti e nelle tradizioni locali, riportando il paese indietro di cento e più anni, alle sue radici contadine. Nel buio, le piccole case in pietrame di gesso e malta luccicano come cristalli, per le caratteristiche chimiche del composto: l’isolamento e l’emigrazione hanno custodito qui, nella valle del Platani, uno dei luoghi più belli di Sicilia.
Sutera è un collare di case di pietra intorno alla rupe gessosa del Monte San Paolino che domina la valle del fiume Platani. Il disordine urbanistico dell’edilizia «fai da te» qui è meno marcato, perché rimane evidente l’impianto medievale: le abitazioni sono ammucchiate le une sulle altre, vecchie e nuove; i colori tradizionali del gesso cercano un raffronto con quelli dei prospetti più recenti; le stradine in pietra lavica e calcarea mantengono un andamento labirintico.
La visita può iniziare dal belvedere di piazza Sant’Agata, dove impone la propria solida volumetria la quattrocentesca chiesa di Sant’Agata, in contrasto con l’ottocentesco Municipio. Nell’interno a tre navate – con volta a botte in quella centrale e grandi arcate – si apprezzano gli stalli del coro in legno scolpito, appartenuti alle Benedettine trasferitesi nel vicino convento nel 1727, la splendida statua in marmo quattrocentesca della Madonna delle Grazie, opera di maestranze lombarde, e la tela della Madonna degli Innocenti di Mariano Rossi (metà XVIII secolo) nella cappella del Sacramento.
Più avanti, percorrendo la via Roma s’incontrano i ruderi del quattrocentesco palazzo Salamone, in cui nacque uno dei tredici eroi della Disfida di Barletta, l’uomo d’arme Francesco Salamone (1478-1569). piazza Carmine è chiusa dalla quinta prospettica della chiesa di Maria Santissima del Carmelo, ricostruita nel 1934-36; la struttura originaria è del 1185 e l’attuale prospetto ingloba un piccolo porticato nel cui portalino d’accesso si notano inserti provenienti dalla moschea del Ràbato. Alla sua destra, il piccolo convento del 1664 ristrutturato di recente è sede del museo della civiltà contadina. Nel candido interno a tre navate, la Madonna del Soccorso è il capolavoro marmoreo del carrarese Bartolomeo Berrettaro: la statua fu scolpita nel 1503 per committenza della famiglia Salamone, i cui sarcofagi ornano la cappella a destra del coro.
Proseguendo per via Carmine si giunge al Rabato, il quartiere all’estremità del paese fondato dagli Arabi intorno all’860 d.C. Il Rabad – termine che sta per «sobborgo» – era un insieme di case dalle mura di gesso abbarbicate le une alle altre, stretti vicoli, ripide scalinate, bagli e terrazzi. Il villaggio arabo è ancora leggibile nell’impianto urbanistico odierno, soprattutto dall’alto del monte, da dove si ammirano i vecchi tetti di coppi siciliani e l’intrico di stradine tipico di una casbah araba. Da quel modello è derivata la casa contadina siciliana a un solo piano, il dammuso, con una singola stanza soppalcata, realizzata in gesso. L’insediamento arabo è sepolto sotto i diversi strati edilizi: sulla moschea edificata intorno all’875, il barone Giovanni Chiaramonte nel 1370 ha innalzato la compatta massa della chiesa di Santa Maria Assunta, ristrutturata nel 1585 e dotata di un elegante portale rinascimentale e di un fonte battesimale marmoreo del 1495. Nella chiesa restano alcuni elementi architettonici della moschea, sporgenti da una parete del locale sovrastante, come le quattro nicchie in muratura di gesso. Da piazza del Carmine si sale per una scalinata di 183 gradini distribuiti in quattro rampe al Monte San Paolino, alto 812 metri, sul cui terrazzo Giovanni Chiaramonte nel 1370 fece erigere sulle strutture dell’antico castello bizantino il santuario di San Paolino. La chiesa è affiancata dal piccolo convento settecentesco dei Padri Filippini che conserva la tela della Madonna in trono fra i Santi Damiano e Cosma di Filippo Tancredi. Ma il vero tesoro della chiesa, custodito in uno stipo ligneo del 1903 alla destra del presbiterio, sono due urne-reliquiario, espressioni massime dell’oreficeria siciliana antica. L’urna contenente le ossa di San Paolino è un grande cofano del 1498 con coperchio a schiena d’asino, sbalzato in una ricamata lamina d’argento con figure a rilievo e decori a racemi e palmette; quella in cui alloggiano le ossa di Sant’Onofrio, eseguita nel 1649 dal palermitano Francesco Rivelo, è uno sfarzoso esempio dell’arte orafa barocca.
Collinette gessose movimentano il paesaggio nei dintorni del borgo. In una di queste, detta rocca spaccata, tradizione vuole che la roccia si sia aperta con l’ultimo respiro di Gesù sulla croce. Nella collina di San Marco, caratterizzata da roccia gessosa e friabile frantumata in grotte, si ammirano in un anfratto i figureddi, affreschi in stile bizantino che rappresentano i quattro Evangelisti, la Madonna e San Paolino, probabile opera di monaci basiliani tra il IV e il VI secolo.
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Piscina comunale all’aperto nei mesi estivi.
La valle del fiume Platani è un libro di archeologia. Un’antica civiltà ci ha lasciato i cubuli, sorta di igloo di pietra sparsi nelle campagne e usati dai contadini come riparo per sé, gli attrezzi e gli animali. Un villaggio sicano con tombe a grotta dell’età del bronzo è stato rinvenuto in località Polizzello a Mussomeli. Questo territorio, secondo una leggenda che gli scavi presso il monte San Marco tendono a confermare, avrebbe visto fiorire un villaggio greco, preceduto da un insediamento preellenico di cui c’è traccia nelle sepolture rinvenute. Al periodo bizantino, testimoniato – sempre in località San Marco – dai figureddi dipinti in una grotta dai monaci basiliani, è seguita la dominazione araba, che anche in periodo federiciano ha resistito, confinata sulle alture della valle del Platani. Il paesaggio riarso e collinare presenta guglie e pinnacoli rocciosi, tra cui la «rocca spaccata» a Sutera, e numerose miniere abbandonate. Ricchi di storia sono anche gli altri paesi della vallata, a partire da Mussomeli, una cascata di case di pietra su cui svetta il campanile a vela della chiesa matrice.
Museo Etno-antropologico,
piazza del Carmine, tel. 0934 954929: percorso didattico attraverso ambienti, arnesi e suppellettili della cultura contadina del primo Novecento.
Settimana Santa:
la Pasqua si annuncia con la “lavanda dei piedi” il giovedì santo e con la sfilata delle confraternite il venerdì di Passione.
Festa di San Paolino,
martedì dopo Pasqua: il reliquiario del santo, un’urna aragonese di finissimo argento del 1498, è portato in processione dalle confraternite del Sacramento, dello Spirito Santo e di Maria Santissima degli Agonizzanti.
Festa di Sant’Onofrio,
prima domenica di agosto: sabato sera, processione notturna del reliquiario barocco del santo con fiaccolata; domenica a mezzogiorno, processione “dei miracoli” nell’agglomerato medievale del Giardinello.
Agosto Suterese,
primi venti giorni d’agosto: teatro, sport e cultura nelle piazze.
Festa di San Francesco,
seconda domenica di settembre: coincide con la Sagra del Peperone.
Presepe Vivente,
periodo natalizio: il Rabato, illuminato da torce e falò, è il teatro naturale, con le sue antiche case e le stradine strette, di un allestimento con 150 attori che fanno rivivere i mestieri della civiltà contadina d’inizio Novecento, tra nenie, cantastorie e degustazioni di cibi come li ciciri, lu pani cunzatu, la minestra di maccu, la guastedda.
Il maccu di fave e li virciddata: a nominarli in dialetto sono ancora più buoni.
Qui il contenitore è importante quanto il contenuto: lu panaru è il cesto di rami di ulivo (ma anche di salice o di olmo) intrecciati artigianalmente, che comprende il dolce tradizionale (li virciddata), le mandorle fallamasa, l’olio di oliva e i formaggi locali.