Varzi
Il salame sotto i portici
Comune di varzi
(Provincia di Pavia)
Altitudine
m. 416 s.l.m.
Abitanti
3207 (650 nel borgo)
Il nome
Varzi rivela la sua origine ligure nel prefisso -var, che significa fiume: luogo sul fiume, dunque, segno che i liguri cominciavano a scendere dalle alture per abitare il fondovalle.
La storia
Varzi fu probabilmente un insediamento dei Liguri, poi dei Romani (esiste a Massinigo, nelle vicinanze, una fornace romana ben conservata e scavata secondo le più moderne tecniche di scavo archeologico). Seguì le vicende delle guerre Cartaginesi, che si svolsero al Ticino e al fiume Trebbia, e fu poi occupata dai Longobardi che avevano eletto Pavia capitale. Non precipitò tuttavia mai nelle barbarie poiché fu “curtis” del monastero di San Colombano a Bobbio. Il Santo venne dall’Irlanda con altri monaci e fondò il monastero con un celebre “scriptorium” che irradiò cultura in tutte le zone circostanti ed anche una fede profonda e viva aliena dalla retorica e attenta all’aiuto ai deboli.
Nel 1164 fu incluso nei feudi dei Marchesi Malaspina, il cui territorio giungeva fino alla Toscana, che dirigevano le loro vaste proprietà dal castello di Oramala (frazione di Varzi). Un tempo rudere, ora ristrutturato da un illuminato mecenate, fu sede di trovatori, centro musicale e culturale e ospitò Dante secondo notizie attendibili. Del resto fu proprio a Moroello Malaspina che indirizzò una famosa epistola.
In questo periodo Varzi, da piccolo centro ligure sull’acqua, divenne centro di commerci e luogo di sosta per uomini e muli, tappa fondamentale prima che il cammino verso Torriglia e la costa ligure si facesse più impervio sulle alture appenniniche. In virtù dell’investitura imperiale diretta, i Malaspina potevano battere moneta, esigere tributi e promulgare leggi per regolare la vita civile del popolo, imprimendo così un controllo totale su un territorio di grande valore strategico, al centro del triangolo tra la pianura emiliana, quella pavese e la costa ligure. Ma la fedeltà all’Impero non poteva essere totale e incondizionata: come feudatari imperiali, i Malaspina si trovarono a preservare i propri interessi in un altalenare di alleanze e prove di potere nei confronti soprattutto delle città vicine, come Piacenza, che, interessata a ridimensionarne i traffici e ad aprirsi una propria via al mare attraverso la val di Taro e la val di Magra, si era già saldamente attestata in val Trebbia. E nel periodo in cui l’insofferenza di molti comuni nei confronti del potere imperiale era ormai diventata aperta ribellione e metteva in lotta tra loro città ghibelline e comuni anti imperiali, non stupisce vedere Obizzo Malaspina cavalcare sui propri territori al fianco di Federico Barbarossa e, poco tempo dopo, giurare fedeltà alla Lega Lombarda nel 1168 contro l’imperatore. Tuttavia, non furono solo i fatti d’arme o le alleanze sbagliate a minare il potere dei Malaspina: seguendo il diritto longobardo in materia di successione, la spartizione dei beni spettava a tutti i figli maschi, che ricevevano anche una sola porzione dei possedimenti di famiglia, cosa che causò una frammentazione incessante e fu spesso motivo di invidie e gelosie famigliari.
Nel 1275 si attuò una divisione tra i discendenti di Obizzino: Azzolino Malaspina diede avvio al marchesato di Varzi e, lasciata la storica sede di Oramala, stabilì la residenza a Varzi: il castello fu riedificato e il borgo stesso ebbe nuovo impulso edilizio e una grande vivacità commerciale e sociale. Un’ulteriore spartizione del territorio tra i tre figli di Azzolino avviò tre nuove linee di successione sul territorio varzese. Nel 1320 i Malaspina approvarono gli Statuti, che regolavano la convivenza civile e penale e definivano l’amministrazione della cosa pubblica nelle mani dei marchesi, coadiuvati per certi incarichi amministrativi da funzionari pubblici in rappresentanza della cittadinanza. La signoria dei Malaspina su Varzi fu assoluta fino al 1395, quando l’imperatore Venceslao nominò Gian Galeazzo Visconti duca di Milano; in virtù del nuovo titolo di investitura imperiale, i Visconti confermarono i feudi della valle Staffora ai Malaspina, che dovettero però amministrarli per loro conto; i Malaspina si assoggettarono malvolentieri al nuovo signore, ma sarà un vuoto di successione a incrinare l’unità dei possedimenti: nel 1430 Filippo Maria Visconti assegnò un terzo del marchesato vacante per mancanza di eredi a Peterlino dal Verme, in cambio dei suoi servigi d’arme. Estintasi anche la linea dei Dal Verme, nel 1466 il duca Galeazzo Maria Sforza ne assegnò i possedimenti a Bosio Sforza: Varzi resterà dominio degli Sforza (che, per alleanze matrimoniali, si chiameranno prima Sforza di Santa Fiora, poi Sforza Cesarini) e, insieme al ducato di Milano, nel 1535 passerà alla corona di Spagna. Le guerre che sconvolsero l’Europa nella prima metà del Settecento furono l’occasione per grandi monarchie e nobili casate di soddisfare mire espansionistiche e di potere. Così, nel 1714 l’Austria poté governare il ducato di Milano, ma già nel 1743 il trattato di Worms, ratificato con la pace di Aquisgrana del 1748, la obbligava a cedere l’Oltrepò pavese e il Bobbiese ai Savoia del Regno di Sardegna: nella divisione amministrativa che ne seguì, Varzi farà parte della provincia di Voghera, per essere poi annessa, insieme a tutto il Piemonte, alla Repubblica francese durante il periodo napoleonico. La Restaurazione del 1815 confermò Varzi al Regno di Sardegna, che la assegnò alla provincia di Bobbio, mentre nel Lombardo-Veneto tornavano gli austriaci, ma solo fino a quando le battaglie risorgimentali riportarono l’Oltrepò al Regno di Sardegna e Varzi finì nella nuova Provincia di Pavia, istituita nel 1859.
Lungo le strade di tutta la valle non si può fare a meno di notare i cippi o le croci poste a commemorare i caduti durante la Guerra di Liberazione, a partire dall’armistizio dell’8 settembre 1943. La chiamata alle armi nell’esercito della Repubblica di Salò ottenne per lo più l’ingrossarsi delle fila dei resistenti, di uomini e donne di tutte le età che combatterono casa per casa per strappare a tedeschi e fascisti il controllo del territorio.
Per contrastare l’attività partigiana, dalla primavera del 1944 si stabilisce a Varzi una sede della Sicherheit, una unità di polizia politica speciale attivata pochi mesi prima con il benestare dei tedeschi, a Casteggio e Voghera, dallo zelante tenente colonnello Alberto Alfieri: dapprima favorendo la delazione e lo spionaggio tra i civili, poi con attività di repressione armata, la Sicherheit si distinse per violenza e brutalità, in particolare sotto il comando di Felice Fiorentini, che solo nella primavera del 1945 sarà catturato dalla Brigata Capettini e fucilato alle Piane di Pietragavina. È in questo periodo di successi e di precipitose ritirate che il 22 settembre 1944, con un combattimento aperto, i partigiani liberano Varzi, dichiarata Zona Libera.
La riorganizzazione delle forze partigiane portò alla definitiva liberazione di Varzi nel marzo del 1945
A contraddistinguere in modo unico il borgo medievale è il sistema di porticato articolato su tre livelli. Si tratta di una configurazione architettonica molto particolare, originariamente pensata per proteggere dalle piene del torrente.
Le abitazioni si susseguono su tipici lotti medievali, stretti in facciata e allungati in profondità, disposti su più piani: quello inferiore a uso di bottega, stalla o magazzino, quelli superiori ad abitazione. Al di sotto, si trova la cantina per il vino o la stagionatura dei salami che, spesso, sfruttando il dislivello verso nord, si estende oltre l’abitazione, fin sotto la strada: ecco spiegate certe grate aperte nella via, per aerare i locali sottostanti. Questa disposizione urbanistica consentiva di rispondere in poco spazio alle molte esigenze dettate anche dagli intensi traffici di merci e di uomini che si svolgevano nella Varzi medievale: di abitazione e lavoro per i residenti, di stoccaggio delle merci, di transito e ricovero per i muli.
Se, nella Varzi odierna, luogo abituale di incontro è la piazza della Fiera, a ridosso dello Staffora, una volta tale funzione di ritrovo era assolta dall’attuale piazza Umberto I, sulla quale si trovano i principali edifici istituzionali: sul lato est il settecentesco palazzo Tamburelli-Malaspina, ora sede del Municipio; sul lato nord la mole nobile e severa del castello. L’attuale piazza era, allora, una zona di rispetto tra il castello, circondato da un fossato difensivo, e il nuovo borgo malaspiniano, nelle cui vie si svolgevano traffici e uffici pubblici, sotto l’attento e vicino controllo del signore. Era anche nota come piazza delle Caminate, con riferimento alle sale dotate di camino dei prestigiosi palazzi che vi si affacciavano. Dal 1852 l’apertura della attuale via Pietro Mazza, tratto cittadino della provinciale Voghera-Bobbio terminata nel 1848, semplificava l’attraversamento di Varzi, fino ad allora possibile solo all’interno del borgo, e creava un nuovo asse di sviluppo urbanistico a nord del centro storico.
Il castello si erge in posizione dominante rispetto sia al nucleo antico che a quello nuovo dell’abitato. Oggi il castello si presenta come un insieme articolato di corpi di fabbrica e di cortili. Le parti più antiche sono visibili oltre una cancellata al termine del piccolo vicolo che costeggia il fianco sinistro provenendo da piazza Umberto I: sulla destra, risalta un portale ogivale in pietra, il cui concio di chiave è scolpito con lo stemma dello spino secco. La parte più recente risulta essere proprio quella affacciata sulla piazza, su cui è disegnata una meridiana e in cui si apre un portale d’accesso in pietra che risale al ’700; il muro a scarpa alla base fa concludere che l’edificio sia stato costruito sul muro di sponda del fossato che circondava il castello anche verso il borgo, alimentato dal canale Lagozzo, che prelevava l’acqua dallo Staffora a monte del paese e vi ritornava costeggiando le mura dietro porta Soprana. Le parti del castello che prospettano verso l’ampio giardino potrebbero essere state erette nello stesso modo, impostate proprio sui muri di contenimento del fossato, quando questo aveva ormai esaurito il suo scopo di difesa, circa nel XVIII secolo. Non mancano particolari raffinati nelle decorazioni in terracotta delle ghiere degli archi, ora tamponati, del cortile interno, che risaltano sulla tonalità della pietra a vista. Il castello è proprietà dei conti Odetti di Marcorengo, che hanno recentemente concluso un raffinato restauro, ricavando nelle sale, nella ghiacciaia, nelle cantine e negli ambienti annessi una struttura ricettiva versatile e suggestiva.
La piazzetta ricavata sulla destra dell’edificio conduce all’ingresso della Torre, che si alza imponente dalla mole del castello per 29 m, con un impianto quadrangolare in cui si sovrappongono 4 ambienti, collegati da una scala angusta, ricavata nell’intercapedine del muro esterno, il cui spessore misura fino a 1,70 m: salendo i 41 gradini esterni e gli 89 interni ai muri, si raggiunge la sommità, dalla quale si gode una vista spettacolare sul borgo e sul paesaggio che lo circonda. La torre fu adibita a prigione fino agli anni ’60 del secolo scorso, quando i carabinieri trasferirono in una nuova sede le “camere di sicurezza”. Furono qui rinchiusi, nel 1460, 25 donne e alcuni uomini accusati di stregoneria e per questo poi arsi nella pubblica piazza; da qui il nome di Torre delle Streghe.
Il palazzo del Municipio ha una facciata semplice in mattoni, ingentilita da cuspidi di timpano su ciascuna finestra e da balconcini in ferro battuto nel corpo centrale, rialzato con un terzo piano. Il palazzo fu eretto nel 1739 dalla famiglia Tamburelli, che aveva fatto notevole fortuna con il commercio di derrate alimentari per gli eserciti durante le guerre settecentesche, e fu poi acquistato nel 1868 dai marchesi Malaspina di Pregola, che vi si stabilirono, mantenendo il palazzo di Pregola come sede estiva; dal 1925 è sede del Municipio. Negli ambienti interni, conserva una sobria austerità: la sala consigliare al piano nobile ha camini in marmo e soffitti affrescati con vedute e paesaggi e pavimento alla genovese, in graniglia di marmo legata con cemento, con, al centro, lo stemma municipale.
Dirimpetto al Castello, si nota una casa del primo decennio del 1900 della famiglia Leonardi, con bella cornice decorata a motivi floreali sotto la gronda molto aggettante.
Prendendo la stretta via a destra del Municipio, ci si inoltra nella Contrada di Dentro, cuore del borgo fortificato sorto a partire dal 1275 con il trasferimento dei Malaspina dello spino fiorito a Varzi: qui si esercitava l’attività amministrativa e qui sorgeranno, nei secoli, edifici privati e religiosi che esprimeranno un nuovo benessere economico. Il borgo si sviluppa con pendenze appena apprezzabili e con una rete di vie secondarie a servizio della via di Dentro, asse principale di collegamento tra le due porte fortificate.
La Via di Dentro, in poche decine di metri, racchiude alcuni degli edifici più belli e prestigiosi di Varzi: era la strada di collegamento tra le due porte del nuovo borgo duecentesco e, fino alle variazioni urbanistiche della metà dell’800, rimase l’unica via di transito attraverso Varzi. Nella sua parte centrale assume l’ampiezza di una piazza, luogo nevralgico per la vita civile e istituzionale del centro.
La naturale pendenza del terreno torna nei nomi delle due porte del borgo fortificato: in leggera discesa verso ovest, si alza la torre di porta Sottana, che conserva quasi intatto il suo impianto originale quadrangolare con archi ogivali e muri in pietra, in cui ancora si individuano i cardini delle porte della città. Sulla destra della torre, il locale del corpo di guardia, detto Casone, da cui si saliva con scale ricavate nel muro fino al camminamento di ronda sulle mura. Sul lato opposto, a ridosso della torre, la famiglia Mangini costruì nel ’700 la sua residenza cittadina. Disposto su tre piani, con una facciata sobria a finto bugnato nella parte inferiore, palazzo Mangini aveva nella parte superiore begli affreschi del primo decennio del Novecento, di cui oggi restano le fasce decorate a racemi sotto le finestre e la cornice marcapiano; negli ambienti interni conserva il gusto e lo sfarzo di una famiglia che, tra ’600 e ’700, aveva elevato il rango economico e sociale. Sfruttando il dislivello del terreno verso il fiume, la fronte interna si articola in terrazza e scalinata che scende al vasto giardino, in cui era un tempo presente un campo da tennis.
Poco più avanti, si trova un portone con stipiti in pietra strombati e un frontone mistilineo con una scritta: «Ostello chiamasi questa dimora, o pellegrino, se alleviar vuoi le tue membra stanche per il cammino». Si tratta dell’ex Ospizio dei Pellegrini, oggi adibito ad accoglienza turistica, costruito nel 1620 per dare ricovero ai numerosi pellegrini che transitavano su questa via e in seguito venduto a privati nel 1859. Era, questa dell’assistenza, l’attività principale della Confraternita della SS. Trinità, fondata nel 1548 a Roma da S. Filippo Neri per regolarizzare quelle aggregazioni di laici che desideravano condurre iniziative caritatevoli rivolte, in particolare, all’accoglienza dei pellegrini e dei convalescenti. In alcune ricorrenze liturgiche i confratelli vestivano una cappa di colore rosso, da cui il nome di chiesa dei Rossi dell’edificio costruito dalla Confraternita nel 1636. Risalta la bella facciata, divisa in due ordini da una cornice aggettante, sorretta da lesene in pietra, come tutto l’ordine inferiore, in cui si aprono il portale centrale e due nicchie laterali, sovrastate da affreschi: a sinistra S. Sebastiano, a destra S. Rocco, probabilmente risalenti all’insediamento in questa chiesa della Confraternita dei Santi Sebastiano e Rocco, di cui si ha notizia a partire dal 1673. L’ordine superiore, con finestra centrale e nicchie laterali con statue di santi, termina con timpano. Quasi opera a sé è il campanile settecentesco, che svetta alto e snello, inconfondibile nel profilo del borgo. L’interno esprime l’eleganza sobria delle architetture barocche lombarde che, secondo i precetti della costruzione architettonica della chiesa controriformata, è ad aula unica con altari laterali. Le pareti e la copertura a crociera delle tre campate sono scandite da una decorazione pittorica. Una elaborata balaustra in marmo policromo profilato in nero, come l’altare, separa la navata dal presbiterio a pianta quadrangolare, con volta a botte; sulla parete di fondo, si trova una tela con Dio Padre e i SS. Sebastiano e Rocco, sovrastata da un’altra tela con cherubini. Di grande interesse e pregio l’arredo ligneo seicentesco in noce, che, oltre i mobili della sacrestia, comprende il coro, con 18 stalli e cattedra riccamente intagliati e intarsiati datati al 1785, il letturino, il pulpito e la tabella di confraternita, che riporta i nominativi dei confratelli e le rispettive cariche. Sul fianco destro, un Angelo, scultura lignea dorata del 1684, e quadro con la Beata Panacea; altre tele interessanti sugli altari del fianco sinistro.
Ancora espressione di quella religiosità laica che dopo il Concilio di Trento viene favorita, normata e sostenuta economicamente, è la chiesa dei Bianchi, la cui costruzione inizia nel 1636 e termina una decina di anni dopo, nel 1646, come dice l’iscrizione sul portale della facciata. Fu, infatti, lo stesso duca Sforzino Sforza, feudatario di Varzi, a concedere alla Compagnia dei Battuti, che durante i loro servizi vestivano una cappa bianca, un luogo per edificare una nuova chiesa, poiché la cappella della SS. Annunziata dove si riunivano abitualmente, posta fuori dalle mura, era troppo spesso resa inagibile dalle piene dello Staffora. Il nuovo edificio ebbe pianta a croce greca con bracci absidati, successivamente celata all’esterno dall’aggiunta di altri corpi, su cui si imposta un alto tamburo cilindrico con piccola lanterna. Aggiunta settecentesca è il campanile. Due finestrelle quadrilobate affiancano il semplice portale architravato in pietra, sormontato da un medaglione con lo stemma della Confraternita del Gonfalone, che immette in uno spazio luminosissimo. Un restauro della metà del Novecento ha riportato l’interno all’essenzialità della struttura architettonica, arricchita da dettagli di grande eleganza, come i cornicioni modanati e i cartigli in stucco con ricche volute e motivi vegetali di gusto barocco. Sopra l’altare maggiore, in marmo policromo, la scultura lignea della Madonna assunta. Nel braccio sinistro, l’altare, aggiunto a fine ’700, ha una teca con la scultura del Cristo morto e una nicchia con la Madonna addolorata; nella nicchia sopra l’altare del braccio destro (1910) si trova una statua con S. Giuseppe. Nell’ambiente laterale ricavato a destra dell’entrata, le statue di Maria Bambina, racchiusa nel tempietto in marmo, facente parte, un tempo, dell’altare maggiore, e del Bambino di Praga. Sopra l’ingresso, una bella cantoria in legno.
Sul fronte opposto, una targa murata ricorda la dimora della famiglia Giacobone, i cui componenti hanno rivestito un importante ruolo nella crescita sociale ed economica del borgo. Il palazzo Giacobone di via di Dentro, abitato fin dall’inzio dell’800, sarà poi risistemato alla metà del secolo e più tardi collegato tramite un passaggio sopraelevato coperto, con il nuovo palazzo, la cui fronte con due logge sovrapposte e il bel giardino sono ben visibili dal ponte che porta in piazza della Fiera.
Tra i due palazzi Giacobone, si trova l’antico vicolo del Follo, che nel borgo malaspiniano conduceva a un mulino adibito alla macina di semi e grani, ma anche alla follatura dei panni per il loro riutilizzo. Chiude la Contrada di Dentro verso est la porta Soprana, detta anche dell’Orologio, per la cella campanaria aggiunta nel XIX secolo. Attraversando l’arco ogivale, si esce dalle fortificazioni malaspiniane della fine del XIII secolo.
Oltre porta Soprana, ci aspetta un assetto urbanistico totalmente diverso, rispetto a quello del borgo che lasciamo: le vie e le case sono qui un tutt’uno, intimamente connesse tra loro, vuoi perché in alcuni punti la casa si apre sulla via con portici ad arcate, vuoi perché è la strada stessa quasi a perforare le abitazioni entrando a tunnel nella loro volumetria. Tutto era qui strettamente allacciato: la casa, la bottega, la cantina, il ricovero degli animali, la strada. In poco spazio tutto avveniva. Entriamo nel nucleo originario del borgo, nel “borgo sull’acqua” presso il corso dello Staffora, dove tutto sa di antico: modernità e progresso hanno portato altrove laboratori e abitazioni, pezzi brulicanti di vita e produzione, ma tra portici, cantine e sporti, resta l’incredibile sensazione di un salto indietro nel tempo.
Varcata porta Soprana, la prospettiva dello stretto vicolo si chiude sulla facciata della chiesa di S. Germano, la parrocchiale del paese, sorta tra il 1584 e il 1620. Nell’organizzazione originaria del borgo di Varzi non esistevano chiese, poiché l’antica pieve – l’attuale chiesa dei Cappuccini – esercitava la sua funzione nonostante si trovasse fuori dal borgo. Solo nel corso del XVI secolo, la graduale fatiscenza del vecchio impianto pievano e lo sviluppo crescente del borgo inducono i Malaspina a mettere a disposizione le strutture dell’oratorio di famiglia del SS. Salvatore, per rifondarlo ex novo e creare così una nuova chiesa parrocchiale, che, nel 1590, riceve dalla pieve originaria l’intitolazione a S. Germano. La facciata è una sistemazione ottocentesca, con S. Germano Vescovo, dell’alessandrino Gambini, sopra il portale, e Dio Padre, nel timpano; nei tondi, a sinistra S. Giorgio e a destra S. Antonio Abate. L’interno, a croce latina, ha navata unica con 3 cappelle laterali per lato: sul fianco sinistro, è il battistero in marmo bianco di Carrara di Arturo Bardi del 1886; segue l’altare di S. Antonio abate e S. Giovanni Evangelista con pala commissionata a Michele Cusa nel 1846 dall’abate Fabrizio Malaspina, con ritratto di Mercurio Malaspina, che aveva voluto la cappella, inginocchiato in adorazione dei due santi stanti su nuvole, illuminati dalla luce divina che irradia dal triangolo equilatero, simbolo della Trinità; lo stemma della famiglia è collocato nel timpano della cornice lignea. Termina il fianco sinistro la cappella della Madonna del Carmine, risistemata alla metà dell’800, con bell’altare marmoreo, tabernacolo dell’orefice Giuseppe Negri e nicchia con la scultura della Madonna in terracotta dipinta, circondata da affreschi con santi. In controfacciata, la tela seicentesca con S. Felice da Cantalice che riceve il Bambino dalla Vergine. Sul fianco destro, nella prima cappella è la tela della Madonna del Carmine, della fine del XVI secolo; più oltre, la cappella dedicata al patrono di Varzi, con la tela del 1860 con S. Giorgio e il drago attribuita a Michele Cusa e la reliquia del braccio di S. Giorgio, conservata in una teca fatta fondere nel 1946 dai varzesi al termine della guerra come ringraziamento, che viene portata in processione in occasione della festa patronale, il 23 aprile. L’ultima cappella è quella del Rosario, con altare e tabernacolo in marmo e statua lignea della Madonna commissionata nel 1851 al Montecucco, di Gavi. Nel transetto sinistro, in successione, la tela ottocentesca con Maddalena penitente, la vetrata con l’Adorazione dei Magi, opera del 2007 voluta dall’attuale arciprete Vernetti, la tela con la Beata Panacea. Nel transetto destro, la riproduzione della grotta di Lourdes eseguita all’inizio del Novecento e la tela con l’Assunzione della Vergine del XVIII secolo. Gli stalli del coro nel presbiterio sono opera settecentesca dell’ebanista Todeschini, come i due pulpiti in radica di noce, mentre l’affresco con le Virtù teologali e Cristo risorto nel catino absidale è di Simone Nani (1975). Notevole, in controfacciata, l’organo, firmato Camillo Guglielmo Bianchi, del 1860.
La chiesa di S. Germano si colloca a un bivio tra i due livelli estremi delle vie porticate: a destra, si scende verso il livello più basso, quello originario costituito da via del Mercato. Prendendo a sinistra, ci inoltriamo sul livello superiore dei portici in via Porta Nuova, che, come dice il nome, risale all’ampliamento delle fortificazioni del borgo nel XV secolo. I portici in sasso hanno aperture talvolta architravate, talvolta a tutto sesto, con copertura in legno. Sulla sinistra, si nota il bel portale di palazzo Giacobone, costruito nel 1750 dai Malaspina di Pietragavina risistemando rustici trascurati e in cattivo stato.
Al termine della via, si percorre un breve tratto di via della Maiolica, per svoltare subito a destra, imboccando il vicolo dietro le Mura, impostato proprio sulle mura di difesa quattrocentesche, dove tutto sembra rimasto come un tempo: oscurità e penombra sono rotte in modo ineguale dalle arcate che si affacciano sulla via sottostante, mentre sul lato destro si alternano gli stretti ingressi alle abitazioni e quelli più ampi delle cantine; la copertura in legno contribuisce a creare addensamenti d’ombre, fino alla fine del portico, in corrispondenza della rotondità dell’abside della chiesa di S. Germano. Svoltando a sinistra, si imbocca via della Piazzola, che scende fino a un nuovo bivio: a sinistra, si riprende via della Maiolica, non porticata, ma tutta in sasso, che conserva la “libertà” edilizia delle case medievali in alcuni sporti e ballatoi; a destra si scende al livello più basso, quello di via del Mercato, in cui si aprono portici su entrambi i lati e che, come dice il nome, era, fino agli anni ’60 del Novecento, il cuore del mercato settimanale.
La chiesa dei Cappuccini, la più antica pieve della valle Staffora, sorge fuori dall’abitato di Varzi, sul luogo dove, già nel V secolo, era stata eretta una pieve dedicata a S. Germano; alcuni atti del 1187 e del 1189 la citano come pieve madre del distretto. L’edificio attuale risale dunque alla fine del XII secolo, nelle forme proprie del romanico: la facciata a salienti presenta nella metà inferiore un rivestimento in pietra arenaria a fasce orizzontali bicrome, mentre la parte superiore resta in cotto a vista con archetti pensili nella cuspide centrale, come nel romanico padano. Al centro si apre un unico portale con protiro aggettante su due slanciate colonne che poggiano su plinti con teste d’ariete angolari; gli stipiti sono ribattuti con riquadri a bassorilievi figurati e capitelli compositi con figure di telamone, mentre le esili colonnine dalla profonda strombatura terminano con capitelli a rocchetto; l’affresco nella lunetta è seicentesco. Scendendo alcuni gradini, si accede all’interno molto luminoso a tre navate, divise da arcate a tutto sesto, impostate su possenti pilastri quadrangolari alternati a massicce colonne. La copertura è a capriate in legno. Sull’arco trionfale, a destra, resta un frammento di Annunciazione, affresco del XV secolo eseguito da Franceschino e Manfredino Boxilio, mentre la pala d’altare raffigura la Madonna della neve col bambino tra due santi. Sulla parete sinistra si trova una tela con S. Francesco che segue Gesù sulla via del Calvario, di Guglielmo Caccia detto il Moncalvo (fine ’500) mentre attribuita a una delle figlie del Moncalvo è la tela sulla parete destra, con la Madonna con San Felice da Cantalice. Duecentesca è, invece, la statuetta in pietra con il Redentore sopra il portale in controfacciata. L’aspetto attuale della chiesa è il risultato di un lungo e ostinato lavoro di restauro a opera soprattutto dei frati Cappuccini, per portare alle forme originarie l’edificio, dopo le lunghe vicissitudini della storia. La pieve, intitolata a S. Germano, sorgeva fuori dell’abitato di Varzi. Quando, nel 1584, fu eretta nel borgo l’attuale chiesa parrocchiale, la pieve le cedette l’intitolazione, rimanendo in disparte, fino al 1623, quando vi si insediarono i frati Cappuccini, che la intitolarono alla Madonna della Neve e la adattarono alla loro vita monastica: vi addossarono un piccolo convento e restaurarono le parti diroccate secondo il gusto barocco dell’epoca; le capriate lignee della copertura furono nascoste da volte in muratura, le pareti furono intonacate e fu aggiunto un altare barocco. Nel 1802, per effetto della soppressione napoleonica degli ordini religiosi, chiesa e convento furono venduti all’asta e, mentre nel convento furono ricavate abitazione per i contadini, la chiesa fu adattata a ricovero attrezzi, carri, animali e fieno. Il livello del pavimento fu rialzato con il deposito di terra battuta proprio per agevolarne il nuovo uso. Solo un secolo dopo, nel 1903, i Cappuccini riscattarono nuovamente gli edifici, ma bisogna aspettare gli anni ’70 del Novecento per l’avvio dei lavori di restauro che hanno portato l’edificio nelle forme attuali.
La valle Staffora offre molte possibilità per immergersi in un ambiente naturale ancora incontaminato e poco antropizzato. Ciascuno può personalizzare il suo contatto con la natura, scegliendo tra le più semplici passeggiate nei boschi per sgranchirsi le gambe, le percorrenze un po’ più lunghe con dislivelli più impegnativi da effettuare in giornata, oppure i veri e propri trekking escursionistici in più giorni, che richiedono una buona dose di resistenza alla camminata in montagna. Sono molto diffuse le passeggiate a cavallo oppure in mountain bike.
La via del sale
E’ motivo di grande suggestione percorrere l’itinerario delle antiche mulattiere di collegamento tra la valle Staffora e la Liguria, sviluppato per circa 60 km, con un dislivello complessivo, tra salita e discesa, di 5000 m. Da Varzi il cammino può durare 4 giorni, con pernottamenti in rifugi o alberghi lungo il cammino;
La via dei Malaspina
È il primo tratto appenninico della via Francigena, che da Pavia fa tappa a Voghera, attraverso la valle Staffora raggiunge Bobbio e da qui scende a Pontremoli e poi prosegue 104 fino a Roma. Da Bobbio la strada prende il nome di Via degli Abati. Si sviluppa per un totale di 98 km, con un dislivello in salita totale di 1300 m.
Cittadella dello sport
Il centro sportivo di Varzi oggetto di recente riqualificazione comprende: campo da calcetto, campo da basket, campi da tennis, area attrezzata per il corpo libero, campi da calcio, campo da padel, piscina, skyfitness per bambini
Vita notturna
Le serate varzesi sono animate dalle iniziative promosse dalle Associazioni e dalle attività commerciali dislocate per le vie del borgo, lungo la via principale e affacciate su piazza della fiera.
Spazio Lena: spazio dedicato all’esposizione di opere di artisti e artigiani locali, animato da incontri di carattere culturale.
Il Casone: di prossima realizzazione il primo Museo multimediale dell’Oltrepò
Carnevale: forse non famoso come il salame, ma qui il Carnevale è un fatto importante, oggi come un tempo, quando per tutto l’anno si attendeva il momento in cui tutto poteva andare alla rovescia. A Varzi il Carnevale è la sfilata dei carri, le frittelle e le chiacchiere, ma è, soprattutto, il momento delle trasgressioni, delle serate danzanti, in cui sono sempre state solo le donne a mascherarsi totalmente, alterando perfino la voce in modo da non essere riconosciute, e a invitare a ballare gli uomini; tradizione che si cerca di mantenere, nonostante i tempi siano ormai cambiati.
Varzi in Fiera: “Cose sagge & meravigliose”, la festa che propone la mostra mercato e la degustazione dei prodotti tipici della valle Staffora (il salame di Varzi DOP, i formaggi, il miele) e l’incontro ravvicinato con gli animali della nostra tradizione.
Vartweek: rassegna annuale di arti e mestieri con laboratori, esperienze sensoriali e racconti.
Festa Medievale: rievocazione storica, a fine luglio, con musica, cibo, sfilate in costume, esibizioni di cavalieri e, in chiusura, il Palio delle Contrade che mette in competizione tra loro le contrade di Varzi e delle sue frazioni.
Metà agosto: Mercatino sotto le stelle, un mercato serale per le vie del borgo, con intrattenimenti musicali e allegre tavole in costume per le strade
Come ogni cucina tradizionale, la cucina varzese tipica è fatta di piatti preparati con le materie prime che, a seconda della stagione, il territorio mette a disposizione e resta un vero vanto quello di confezionare piatti fatti come una volta. Tra i piatti che ogni famiglia varzese ha tramandato di generazione in generazione, non sono mai mancati i ravioli di brasato, il risotto con i funghi porcini, la trippa con fagioli bianchi, la semplice zuppa di ceci, il merluzzo con le cipolle, le lumache, piatto forte della vigilia di Natale.
I ravioli a Varzi sono un piatto nobile, perché racchiudono un ripieno non frutto di avanzi o di tagli diversi, ma di brasato appositamente cucinato, meglio se il giorno prima. La preparazione non è facile, perché richiede di saper maneggiare ad arte due materie molto diverse tra loro: prima di tutto, la carne, di cui bisogna scegliere il giusto taglio – di solito il cappello del prete, localmente detto anche “pernice” – da portare a giusta cottura con gli aromi e da sminuzzare, rigorosamente al coltello, pazientemente fino alla giusta consistenza; poi, la pasta sfoglia all’uovo, che deve reggere il ripieno senza rompersi, ma allo stesso tempo cedere dolcemente e quasi sciogliersi in bocca. Al di là della tecnica, è il piatto su cui si testa la sensibilità di chi li prepara, immancabili nel menù di ogni ristorante della zona.
Oltre ai pranzi principali, il varzese a tavola dà il meglio di sé in occasione della merenda, forse il momento conviviale per eccellenza, perché soddisfa sì quel piccolo senso di fame di metà pomeriggio, ma è soprattutto l’occasione di riunirsi in compagnia attorno a un tavolo. Ecco, allora, comparire sul tagliere il salame, accompagnato dalla micca, la pagnotta a forma di treccia di pasta dura, fatta cioè con poca acqua per durare più a lungo, e dalle schicce, fatte con pastella di acqua e farina fritta nell’olio, da consumare calde Poi i formaggi dei tanti caseifici che ancora lavorano soprattutto in Alta Valle Staffora.
La torta di mandorle, gustosa e friabile, continua la sua tradizione di dolce rustico più tipico della zona: è una torta semplice, ma molto nutriente.
Il salame
Il “Varzi” ha il sapore del luogo. Si è soliti far risalire la stagionatura della carne cruda al tempo dei longobardi, che potevano così assicurarsi scorta di viveri nelle lunghe migrazioni. I metodi di allevamento dei maiali e di lavorazione delle loro carni sarebbero poi stati affinati dal lavoro dei monaci, via via perfezionato e tramandato lungo i secoli, fino ad arrivare alla qualità garantita dal Disciplinare della DOP Salame di Varzi, che lega le caratteristiche del salame esclusivamente alla zona di produzione. Per il salame di Varzi bisogna utilizzare suini pesanti allevati in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte, di razze migliorate secondo il Libro Genealogico Italiano, quali le tradizionali Large White e Landrace, oppure suini figli di verri della razza Duroc o suini figli di verri di altre razze o di verri ibridi, purché nati in Italia. L’alimentazione, a base di cereali e ghiande, è controllata nelle fasi di crescita fino al momento della macellazione, che può avvenire per animali con peso non inferiore ai 150 kg e di età non inferiore ai 10 mesi. La scelta dei tagli è immediata e segue la proporzione di 40 grammi di grasso duro (ricavato da guanciale, testata di spalla, pancetta, culatello e lardello) per 100 grammi di carne magra che comprende tutte le carni del maiale, comprese quelle “nobili”, normalmente utilizzate per salumi a sé (coscia, lonza, filetto, coppa, pancetta, prosciutto, spalla), ad esclusione di testa e zampe, tutto rigorosamente ripulito da tendini e nervi. Dopo aver lavato la carne e averla lasciata riposare per massimo 48 ore a temperatura tra 0° e 6°C per rallentare lo sviluppo e la crescita di microorganismi generati dalla lavorazione precedente, si procede alla macinatura nel tritacarne con fori non inferiori a 10 mm per i cacciatori e a 12 mm per i salami. È a questo punto che, all’impasto ottenuto, si aggiunge la concia, cioè la miscela di salagione costituita da sale marino, pepe nero in grani, infuso di aglio in vino rosso filtrato. Dopo l’insaccatura in budelli rigorosamente naturali di suino e la legatura con spago nella giusta tensione, il salame viene forellato e suddiviso in lotti di produzione mediante l’apposizione dei sigilli. Ha, così, inizio la stagionatura, che comincia con la stufatura (esposizione per un massimo di 4 giorni a 26°C), che causa una prima grossa perdita di peso e mette in azione i batteri utili a danno di quelli potenzialmente nocivi. La prestagionatura in locali ad aerazione controllata e temperatura massima di 20°C favorisce per circa 8 giorni l’ulteriore perdita di peso e la conseguente amalgama dell’impasto in modo uniforme. Se, fin qui, il procedimento ha rispettato modalità standard, diremmo di maniera, la stagionatura è, invece, un fatto di ambiente, è il momento da cui il salame trae la sua personalità, la sua individualità: appeso nelle antiche cantine, ogni singolo salame continua a respirare gli odori del sasso umido che lo circonda, a nutrirsi dell’aria mista di brezze marine provenienti dalla Liguria e di correnti montane che scendono dalle alture del Chiappo, del Lesima, del Boglelio. Così forma, nell’arco di almeno 100 giorni, il suo carattere inconfondibile, così personale, che i palati più fini riescono a riconoscere, al gusto, la cantina di provenienza.